verso Oriente…viaggio lungo la transiberiana
Le stazioni si somigliano tutte. Il silenzio non esiste, tutto è suono. L’urlo della motrice in partenza e l’eco dello speaker che annuncia un ritardo coprono il vociare prodotto dai viaggiatori. Nell’atrio gli odori si mescolano creando quel caratteristico fetore presente in ogni stazione. Mi sembra di essere qui da una vita intera. L’aria è fredda, ma non come immaginavo potesse essere la brezza di una città sul Baltico in inverno. Quando entri in una stazione ti infili in una trappola temporale. Il mondo si ferma e tutti i luoghi comunicano tra loro. Durante il tragitto da un luogo all’altro senti l’impressione del distacco, e mentre guardi fuori dal finestrino lotti coi sogni come nella vita. Il treno è come un teletrasporto, sali in un luogo e scendi in un altro. Guardando fuori ti sembra di correre veloce, ma osservando il passeggero di fronte a te ti accorgi di essere fermo. Che stregoneria è mai questa!!! Lo scomparto diventa una fortezza in cui il tempo non riesce ad entrare. Nessuno si salva dalla fuga del ritmo. La monotonia conquista lo spazio lentamente, attraverso gesti che diventano rituali, quasi militareschi. La stessa giornata si ripete nelle ore senza grosse novità. Nei volti dei viaggiatori si alternano espressioni di speranza e delusione di chi rimane fermo ad aspettare, mentre il mondo continua a galoppare ad una velocità spaventosa. L’est è dappertutto, è il marchio di un luogo che non porta da nessuna parte, è un percorso che corre verso l’ignoto emotivo che attrae tutti gli uomini. Ho umanizzato il treno, gli ho voluto bene. Ho condiviso il letto con sconosciuti che sembrava volessero combattere la dipendenza dall’alcol con l’eroina.
ANDREJ
“Se c’è la nebbia gelata, fuori ci sono 40 gradi sotto zero. Se respirando l’aria fai rumore ma riesci comunque a tirare il fiato senza difficoltà fuori ci sono 45 gradi sotto zero. Se la respirazione è rumorosa e provoca affanno i gradi sotto zero sono 50. Sotto i 55 gradi lo sputo si congela in volo”.
Guardo la terra che dorme fuori dal finestrino, i dettagli della tundra si mescolano come in una tela di Cézanne. Il treno, lanciato idealmente a tutta velocità, procede lentamente verso est, come incollato all’Occidente russo che fatica a scrollarsi di dosso. Fuori c’è un mondo che esiste. Nel vagone l’aria è gelida e maleodorante, all’inizio dello scompartimento ci sono tre uomini evenchi ubriachi fradici, giocano a carte e scommettono il loro futuro. Sui letti si trova un ammasso confuso di vestiti e stracci, bottiglie di birra e di vodka, piatti lerci e decine di teste di pesce sparse ovunque. Il finestrino è un quadro che racchiude campiture della natura che fanno da sfondo alla forma. Vedo Andrej che entra e conquista prima lo spazio e poi il tempo. Il suo corpo compie un intenso sforzo verso la taiga per sfuggire all’immobilismo del vagone, con un spasmo si divincola dalla vita e dalla struttura materiale che lo imprigiona. Andrej ha 34 anni ma ne dimostra il doppio, piegato dalla vodka sta su per miracolo senza perdere mai la coscienza di essere. E’ alto come un orso, il suo fisico sembra energico, ma la sua anima è consumata dalla durezza del gelo. Ha la faccia un pò schiacciata e le orecchie a sventola, la testa rasata, la barba di due giorni e rughe spesse gli solcano il viso. Nei sui occhi c’è tutta la Siberia. Il respiro metallico del vagone annebbia il fruscio delle voci, le parole mutano in suoni incomprensibili che sono gesti funzionali ad una conversazione grottesca e superficiale. Osservare le immagini che mi circondano rimane la mia unica speranza di sopravvivenza.La luna entra timidamente dal finestrino disegnando potenti chiaroscuri sui volti dei miei compagni di viaggio nella penombra della tundra siberiana. La transiberiana è una straordinaria galleria di ritratti, babushkas con la schiena ricurva e militari armati dominano la scena. I vecchi siberiani fanno una vita di dolore fisico e spirituale, pervasi da una profonda sofferenza che esiste perché è condivisa. Insomma gente felice, che sopravvive con lavori duri, spesso saltuari. Le immagini della transiberiana sono potenti, ma al contrario di ciò che sembra rappresentano un medium verso un mondo interiore, in cui più ti avvicini a una cosa e più questa si allontana, come nei sogni.
Si mangia. Andrej addenta teste di pesce con avidità accompagnate da abbondanti sorsate di vodka. Una babushka imbandisce il tavolo con cura. Da un borsone tira fuori piatti di plastica, una zuppa di soljanka, cetrioli sottaceti, pomodori, cubi di lardo, smetana, omul affumicato, olive sgusciate, poi uova sode, qualche bibita dai colori sgargianti e pane nero. Dopo due giorni di viaggio Andrej parla della mia terra, la osanna, la rispetta, e con quel poco che riusciamo a comunicare non me la sento di distruggere la sua idea. E’ incredibile, più ci si allontana dall’Occidente e più la cultura occidentale diventa pura.
Da Mosca a Vladivostock il percorso è interiore. Durante il viaggio si è obbligati ad ascoltarsi, la tundra e la taiga diventano i luoghi della disintegrazione delle identità. L’angoscia esistenziale è un passaggio per raggiungere una nuova conoscenza di sè. L’Ejsei scorre incontenibile sotto il ponte di metallo, ma sulla mia anima passa invano. Anche questa notte sarà uguale alle altre, tetra, taciturna e senza sogni. Il treno si muove in un contesto dove si percepisce l’instabilità, in cui lo spazio è in rovina, modificato dalle nuove ideologie occidentali. Qui niente e immune all’esperienza della disgregazione sovietica. Ho potenziato i miei sensi coi media. Ho accostato la fotografia di paesaggio al pensiero per indagare l’ignoto e fare chiarezza nell’anima e non per confermare quello che già conoscevo. Ho trovato un luogo grigio neutro, armonico, creato dalla somma di tutti i colori in equilibrio.
ALINA
Venti giorni sono passati dalla sua partenza senza portare materialmente nulla di nuovo. Alina è rimasta ferma ad aspettare, come se la vita dovesse avere per lei una particolare benevolenza. Niente può sostenere il peso dell’aspettativa.Gli occhi di Alina hanno una storia con una prospettiva ampia, che esce dai confini della Siberia, raccontano di un’espansione nel tempo e nello spazio. Sul treno il tempo si ferma, le vite dei viaggiatori rimangono sospese per l’eternità o per un sospiro, evidenziando l’imperfezione del tempo e trasformando lo spazio in immagini. Lo scompartimento è un universo immobile, ma in continuo movimento. Alina guarda fuori dal finestrino ghiacciato le immagini del paesaggio in silenzio, qui la natura è consapevole di esserlo e le si apre ad ogni tipo di confidenza. Alina riflette su ciò che il paesaggio non dice, sulle omissioni e sui vuoti narrativi che la natura le mette davanti agli occhi. Una sequenza rapidissima d’immagini faconde e dense di significato perché consapevoli. Così, mentre si tocca i capelli e mordicchia il labbro inferiore con nervosismo lei pensa al silenzio che non va considerato come una mancanza di senso, ma come un invito a trovarlo. Con gli occhi inizia una battuta di caccia agli elementi mancanti all’interno dell’immagine. Per lei i vuoti diventano l’unica cosa che conta. Alina è bella ma non ride mai, non sorride mai! Ha l’aria disperatamente triste, desidera un destino diverso da quello che la società ha scelto per lei. Come una bambina libera dal pregiudizio vuole percepire il mondo così com’è, senza aggiungere nulla. Guardo Alina e capisco che il paesaggio parla a pochi, ma è meglio che parli ad una sola persona in grado di capire, piuttosto che a mille che si dimenticano. Eppure venti giorni di treno sono lunghi e possono succedere molte cose, Alina cerca la sua soluzione, e le domande oscillano tra l’ovvietà delle risposte e le menzogne che quest’ultime portano nella sua intima realtà. Così non le ho detto nulla di falso, ma nemmeno nulla di vero. Anche nel dire la verità c’è una frontiera che non si dovrebbe mai superare.
SASHA
Il treno si ferma, i viaggiatori scendono per una sigaretta e qualche bottiglia di vodka. La provodnìtsa picchia con forza le ruote ghiacciate della carrozza con un pesante martello. Le stazioni siberiane sono considerate dei monumenti, inni clamorosi di conquista in un paesaggio di grazia e terrore. I cani randagi si muovono in branchi, in attesa di un moribondo da sbranare. Qui il freddo è il grado zero della bellezza. Sasha si sbronza. Faccia livida, gonfia dal freddo, occhi rossi e labbra screpolate. La sua vita è una traversata nel ghiaccio e nei suoi occhi i toni sono piatti, i segreti del suo cromatismo restano impenetrabili e possono essere colti solamente dal cuore. Sasha è un sopravvissuto di se stesso, la febbre bianca lo ha risparmiato molte volte. I siberiani bevono talmente tanto da svenire in mezzo alla strada e d’inverno la colonnina di mercurio è la roncola di Thánatos. Come molte altre, la sua é una vita di sprecata, passata in una città aliena costruita sulle ossa degli antenati. Nel suo sguardo compare la paura sconfinata della morte, o forse della vita. Sulla schiena porta il peso di frequenti attacchi di panico e allucinazioni paranoiche del delirium tremens. Mentre dorme dal suo volto traspare amore, serenità, gioia, ma al risveglio la sua faccia è deformata dai ricordi, dalle necessità e dal sentimento. La morte non è un’esperienza che possiamo trasmettere. Ci si può avvicinare alla morte ricavandone solo dolore e il dolore non ha colore, o forse li ha tutti. La morte è in ogni decisione, e questo dà alla nostra esistenza lo spessore emotivo. Con lei il punto di non ritorno non è attraversabile se non dopo una vita intera. La morte ci segue come un’ombra e a volte nell’ombra si trovano le risposte più chiare. Ma la mia ombra s’imbratta, si offusca e si contorce dietro una vita di speranza intrisa nei pannelli d’abete del treno. E’ impossibile abituarsi al gelo, si può solo provare a sopportalo stringendo i denti. Il gelo è come la morfina, infonde beatitudine, lentamente, finche il corpo non risponde più. Così scoprì che la Siberia mi piaceva, perché tutto qui finiva, perché è l’ultimo paese dove lo spazio immobile, prigioniero in un vagone, sovrasta il tempo imperfetto che non finisce ma calcifica e continua a vivere dentro di noi scorrendo apparentemente in un’unica direzione. Qui conta solo il freddo che ti porta sulla soglia della vita e che alla fine ti fa credere tutto il contrario. Qui il tempo è ignoranza, non coincide più, e nemmeno lo spazio che è corrotto dalle nuove ideologie occidentali. Le lande siberiane sono i non luoghi dove la mia identità si scioglie e diventa instabile. Così entro in loop spazio temporale costruito dalla mente, adagio abbandono i pensieri, abbraccio la Siberia e comprendo che qui si è liberi dal bisogno di capire. Questa terra non si preoccupa delle persone che si perdono lungo la strada.Tra di noi il silenzio non è mai opprimente.