La terra del Sangue e del Miele
di Massimo Mastrorillo e Emanuele Mei
“A Trieste finisce l’Europa, l’ultimo baluardo della civiltà e poi, ci sono solo i barbari”
I Balcani sono sempre stati il terreno ideale dove dare sfogo allo scontro politico europeo. La Bosnia è la cartina tornasole dell’orientamento tipicamente europeo di scaricare le proprie paure altrove, per sfuggire dai problemi, per non saldare i conti con la propria storia.
La politica europea si è rivelata spesso una sorta di teatro; i confronti politici finiscono con il diventare commedie imbarazzanti, i cui attori non hanno neanche letto il copione.
All’indomani del crollo del muro di Berlino, Francia, Inghilterra e Russia diedero il loro tacito assenso a Milosevic per portare avanti i suoi “disegni politici”, per timore che la Germania ottenesse il controllo economico della ex Yugoslavia mitteleuropea.
La memoria è meglio cancellarla, perché così la storia può essere ridisegnata a proprio piacimento. I ministri inglesi sostenevano a gran voce l’embargo sulle armi ai difensori, mentre gli attaccanti disponevano di un esercito tra i più equipaggiati d’Europa, ma ricordarlo, implicherebbe l’ammissione d’impotenza nella politica estera della comunità europea.
E che dire sul comportamento della Francia durante il conflitto? Impartiva ordini d’immobilismo ai caschi blu stanziati a Srebrenica, nonostante questi fossero sotto il diretto comando delle Nazioni Unite, ignorando quindi l’ordinamento giuridico dell’ONU. Le conseguenze sono tuttora davanti agli occhi di tutti.
Oggi la Bosnia è divisa in un caotico ordinamento politico, la disoccupazione è la più alta d’Europa e i giovani non hanno alcuna aspettativa per il futuro. La rassegnazione è sempre più diffusa, la situazione economica è deficitaria e la corruzione è dilagante.
Il rimpianto del regime comincia ad essere generalizzato, il valore del marco convertibile inchioda la popolazione entro i confini nazionali, in una sorta di prigionia virtuale, a cui è difficile sottrarsi.
Inoltre il ricorso diffuso a livello internazionale ai nazionalismi estremi al non riconoscimento della diversità rende sempre più netta quella linea di separazione tra occidente e oriente, fomenta la paura dei musulmani, delle diverse abitudini di un popolo, dando sempre più spazio alle divisioni etniche, che furono il combustibile del terribile conflitto del ‘92. È storia recente il tentativo di Milorad Dodik di costituire uno Stato popolare di serbo bosniaci, con un proprio esercito indipendente. La Bosnia è una polveriera pronta ad esplodere da un momento all’altro. Nessuno ha riconsegnato le armi per paura che le tensioni tra le varie etnie degenerassero nuovamente.
"Una volta eravamo tutti Jugoslavi, ora cosa siamo?” Questa è una frase che ci ha regalato un giovane amico di Sarajevo. Cosa significa vivere senza speranza, senza un’identità, in una sorta di “Amnezjia" collettiva? Abbiamo deciso di unire le nostre forze per raccontare questo disagio, per farlo nostro, per trovare la forza, il coraggio e la lucidità per raccontare con un linguaggio adeguato quello che succede sotto traccia, quel tumore silente che si impossessa dei corpi e delle menti delle persone. La metafora e l’immaginazione sono le basi su cui si basa il nostro racconto.
L’immaginazione è un pensiero primitivo, autentico, e per questo è fondamentale per raccontare un tema così delicato e poco tangibile come la perdita involontaria e inconscia della propria identità. Da anni ci confrontiamo e condividiamo i nostri sforzi per cercare di mantenere una coerenza stilistica e narrativa. Alle immagini fisse aggiungeremo quelle in movimento e tracce registrate, per porre l’ascoltatore al centro del contesto. Suoni di pioggia, di campane, di muezzin, di rumori di tram, di musiche ascoltate sui taxi del traffico sul viale dei cecchini per ricollegarsi alla perdita, alla storia, a paesaggi grigi, architetture ingombranti per cercare di percepire noi in prima persona e trasmettere gli altri l’aurea di una nazione nel momento in cui il passato ancora recente e tragico s’incontra con il presente.
Ancora tanto è il lavoro da fare, ancora tanto dobbiamo indagare. Perché è come se fossimo al fronte, dove si combattono battaglie tra demoni e dove diventa sempre più difficile distinguere il confine tra bene e male. Qui anche la natura sembra trattenere il fiato. Il tempo è scandito tra il prima e il dopo, il durante diventa uno spazio sospeso. I momenti si dilatano fino a fermarsi, le persone sembrano muoversi e pensare a rallentatore.
Dimenticare tutto dev'essere un pò come morire dolcemente, quando vivere diventa una condanna.
The Land of Blood and Honey
By Massimo Mastrorillo and Emanuele Mei
"In Trieste Europe ends, the last bastion of civilization and then, there are only the barbarians."
The Balkans have always been the ideal terrain in which to give vent to European political confrontation. Bosnia is the litmus test of the typically European tendency to unload one's fears elsewhere, to escape from problems, to not settle accounts with one's own history.
European politics has often turned out to be a kind of theater; political confrontations end up becoming embarrassing comedies, whose actors have not even read the script.
In the aftermath of the collapse of the Berlin Wall, France, England and Russia gave their tacit consent to Milosevic to carry out his "political designs", for fear that Germany would gain economic control of the former central European Yugoslavia.
It is better to erase the memory, because then history can be redrawn at will. British ministers loudly supported the embargo on arms to the defenders, while the attackers had one of the best equipped armies in Europe, but to remember this would imply the admission of impotence in the foreign policy of the European community.
And what about France's behavior during the conflict? It gave orders of immobility to the blue helmets stationed in Srebrenica, although they were under the direct command of the United Nations, thus ignoring the UN legal system. The consequences are still there for all to see.
Today Bosnia is divided into a chaotic political order, unemployment is the highest in Europe and young people have no expectations for the future. Resignation is increasingly widespread, the economic situation is poor and corruption is rampant.
Regret for the regime is becoming widespread, the value of the convertible mark pins the population within the national borders, in a sort of virtual imprisonment, from which it is difficult to escape.
Moreover, the widespread international recourse to extreme nationalism and non-recognition of diversity makes the line of separation between West and East increasingly clear, foments fear of Muslims, of the different habits of a people, giving more and more space to ethnic divisions, which were the fuel of the terrible conflict of '92. Milorad Dodik's attempt to establish a popular state of Bosnian Serbs, with its own independent army, is recent history. Bosnia is a powder keg ready to explode at any moment. No one has given up their weapons for fear that the tensions between the various ethnic groups would degenerate again.
"Once we were all Yugoslavs, now what are we?" This is a phrase given to us by a young friend from Sarajevo. What does it mean to live without hope, without an identity, in a sort of collective "Amnezjia"? We decided to join forces to tell this uneasiness, to make it our own, to find the strength, courage and lucidity to narrate with an adequate language what happens under the surface, that silent tumor that takes possession of people's bodies and minds. Metaphor and imagination are the foundations on which our story is based. Imagination is a primitive thought, authentic, and for this reason it is fundamental to narrate a theme so delicate and not very tangible as the involuntary and unconscious loss of one's own identity.
For years we have been comparing and sharing our efforts to try to maintain a stylistic and narrative coherence. To the still images we will add moving images and recorded tracks, to put the listener at the center of the context. Sounds of rain, of bells, of muezzins, of streetcar noises, of music listened on the traffic cabs on the snipers' avenue to reconnect to loss, to history, to grey landscapes, bulky architectures to try to perceive us in the first person and transmit to others the aura of a nation in the moment in which the still recent and tragic past meets the present.
There is still so much work to be done, so much to investigate. Because it is as if we were at the front, where battles are fought between demons and where it becomes increasingly difficult to distinguish the border between good and evil. Here even nature seems to hold its breath. Time is marked between before and after, while the present becomes a suspended space. Moments dilate until they stop, people seem to move and think in slow motion.
Forgetting everything must be a bit like dying softly, when living becomes a sentence.