I luoghi dell’infinito
Per definizione il paesaggio è una porzione di territorio, considerata dal punto di vista prospettico o descrittivo, per lo più con un senso affettivo a cui si può più o meno associare anche un’esigenza di carattere artistico ed estetico: un paesaggio squallido, melanconico, ridente, pittoresco; dalla finestra si vede un paesaggio incantevole; fermarsi ad ammirare il paesaggio; la difesa, la tutela del paesaggio. Molto spesso mi sono chiesto se il paesaggio si legge o si guarda. I paesaggi hanno sempre qualcosa da dire, sono custodi della nostra esistenza, essi ci ricordano che prima di qualsiasi altra cosa si deve vivere. Le parole evocano immagini, le immagini portano pensieri, ma i paesaggi evocano la vita.
La visione del paesaggio inizia quasi sempre escludendo il soggetto, poi i particolari che lo compongono, per ricercare la pura espressione dell’oggetto. Prima dello scatto la mente genera un Close up, realizza ingrandimenti confusi e stira i pixel, e dopo torna alla normalità, scioccata dalla brutalità dei chiaroscuri che formano i contorni della materia. La verità è che dentro l’immagine dei paesaggi si possono trovare solamente nostre proiezioni del reale. Un collage dell’assurdo, creato selezionando forme con un occhio quadrato. Alla fine siamo noi a rivelare i luoghi, osservandoli li portiamo alla luce, ritraendoli li sveliamo al mondo rivelandoli insieme ai nostri mostri e le nostre visioni contorte del reale. Queste immagini svelate sono sempre brutali e portano la coscienza ad amalgamare il reale al fantastico, per confondere il reale che è stato con quello che sarà. In questo modo il nostro pensiero si sviluppa dal concreto al favoloso, che assume più importanza del concreto stesso.
La fotografia di paesaggio è contemplativa. Ci si ferma guardare a lungo, con intensità e meraviglia, e si finisce per meditare profondamente sulle questioni politiche o religiose che il luogo si porta dietro. Così dai landscape emergono voci che bisbigliano, le gioie e i dolori dei giorni trascorsi che hanno scandito il prima e il dopo. Lo studio del paesaggio ti connette con il territorio e ti fa immaginare gli eventi, creando altre fotografie all’interno della mente. Il territorio trasmette ricordi, non tuoi, rivela quello che le parole non dicono o non hanno il coraggio di diffondere. In questo frastuono visivo le forme del paesaggio sono evocative, creano un dialogo a due, e ritrarle significa riscrivere una storia che si nasconde timidamente.
Questo dialogo binario è una registrazione della forma, un gioco di ombre in equilibrio tra figure e colori in uno spazio e in un tempo che si sciolgono nella mente, creando un’immagine in continuo mutamento anche se apparentemente statica. Un’immagine che non è un documento, ma è sempre una metafora. La prospettiva oscilla continuamente tra un senso di appartenenza e uno di estraneità.
Davanti ad un paesaggio la rapidità del flusso delle notizie e delle immagini non ha rilievo e rimangono quelle visioni originali, quel sillogismo lento e coerente, primigenio. Ma il paesaggio rende liberi dal bisogno di capirne il problema e pone l’accento su ciò che si vede e non su ciò che si guarda. Bisognerebbe impadronirsi della visione di un cieco per potenziare l’immagine che ci creiamo nella mente, che poi è quella che restituiamo al mondo con le parole, con la penna, la matita, il pennello o con la stampa. La vera immagine non è istantanea, la vera immagine è eterna nello spazio e nel tempo ed intrisa di vita, comunica esperienze, sentimenti che sono sempre instabili.
L’istantanea è un surrogato di un’immagine non è essa stessa pura immagine. L’immagine si crea unendo l’esperienza diretta di un luogo ai sentimenti che quest’ultimo sprigiona. Quindi guardare un paesaggio significa fare un’analisi senza coordinate temporali. Non si può calcolare il futuro, nemmeno se si conosce il presente, “vivere” il paesaggio significa assorbire il potere comunicativo della terra dove la vita si è svolta nei secoli senza compromessi, dove l’’Oriente e Occidente, Nord e Sud, smettono si essere tali ed è diventato una cosa unica.
Nella logica della sensazione il problema dell’indagine non è più quello del luogo ma bensì dell’evento. Ed è sull’evento che la modernità interviene a gamba tesa, rendendolo spettacolare e relegando il “luogo” al ruolo di coprotagonista. L’aggettivo “moderno” oggi rappresenta la superiorità rispetto a quello che già è stato, (non si guarda indietro) mandando in crisi il concetto di comunità e facendo emergere l’egocentrismo come punto cardine della società, in cui sono “tutti contro tutti”, in cui il vicino è diventato un nemico dal quale guardarsi le spalle.
L’individualità ha sviluppato il sentimento dell’odio e ha seppellito l’amore, e di conseguenza alcune persone devono avere sempre qualcuno o qualcosa (paesaggio) da odiare per sopportare se stesse. Un paesaggio ha molte letture perché è ambiguo, e solamente ciò che è ambiguo può essere considerato arte. Una lettura che ammette una sola definizione o un sola denominazione del paesaggio è scontata mentre l’arte consente letture in molti versi e in differenti direzioni. Il paesaggio è natura, la natura è arte, il paesaggio è arte. Spesso l’arte deriva dalla tragicità che la vita porta con se, per questo impariamo di più sulle nostre emozioni dall’arte, ma dalla natura dovremmo imparare a stare al mondo.